Frasi di Jhon McEnroe - Sul serio.
Tom Gullikson, primo turno, Wimbledon 1981.
Quando Gullikson si portò in vantaggio 4-3 al secondo set per una palla chiamata fuori a sproposito, scagliai a terra con violenza la mia Wilson Pro Staff e James mi ammonì.
Più tardi, quando un giudice di linea chiamò fuori un servizio profondo che avevo visto chiaramente sollevare uno sbuffo di gesso, gettai anche la seconda racchetta e lanciai un grido che arrivava dal profondo del Queens, ma che da allora ha viaggiato in tutto il mondo.
“Man, you cannot be serious!”
Cioè: “Ehi, non è possibile che tu dica sul serio”.
Smisi di giocare, andai dal signor James e gli chiesi se avesse visto la nuvoletta di gesso.
Quando fummo 1-1 nel terzo set, Gullikson battè un servizio troppo lungo e la palla non venne chiamata fuori.
Urlai un’altra frase tipica del Queens con cui informavo i giudici che secondo me erano la feccia dell’umanità.
Il signor Edward James nel Queens evidentemente non c’era mai stato.
In seguito si seppe che nel taccuino aveva scritto “piss of the world” (piscio del mondo), non “pits of the world” (feccia del mondo).
Dopo il match mi comminarono una multa di 750 dollari per turpiloquio e un’altra di pari importo per il commento poco sportivo contro il giudice di sedia: mi minacciarono con un’altra multa di diecimila dollari e una possibile squalifica dal torneo se mi fossi permesso di comportarmi ancora in un modo simile.
Tra l’ottobre del 1981 Lendl vinse 42 match di fila falciando chiunque trovasse sul suo cammino, me incluso.
Correva, andava in bici, faceva ginnastica, e soprattutto si allenava, si allenava, si allenava. Io facevo quello che avevo sempre fatto: giocavo a tennis, punto e basta.
Immagino di non sorprendere nessuno se dico che essere il numero uno al mondo richiede un ego di proporzioni colossali.
Dopo la vittoria agli U.S. Open del 1981 fui invitato alla casa bianca dal presidente Regan, e non volevo andarci!
Me lo comunicarono il giorno prima, e l’appuntamento era stato fissato di mattina presto: mi sembrò troppo scomodo.
All’inizio del tour, Gary mi chiede cosa desideravo prima, durante e dopo ogni match. Volli della segatura.
Avevo l’abitudine di tenerne sempre un pò nella tasca dei pantaloncini perchè assorbiva il sudore delle mani.
Sempre in quel periodo andai in Giappone per esibirmi a Osaka e a Tokyo.
Sul treno ad alta velocità che mi portava a Tokyo cominciai a bere del Suntory insieme ad altri giocatori.
Mi trovavo sul treno più veloce del mondo, il Suntuory è un whisky fortissimo e avevo ventiquattro anni.
Quando arrivammo in stazione mi girava la testa.
Mi voltai verso la compostissima signora giapponese che mi stava accanto e le vomitai addosso.
Secondo me, uno dei grandi problemi del tennis contemporaneo sta nel fatto che le star di oggi si rifiutano di riconoscere l’importanza della storia di questo sport.
Una mattina di maggio mi stavo allenando con il mio fratellino diciassettenne Patrick (che, in un mio momento di distrazione, era diventato il numero tre degli stati Uniti nella categoria juniores) al club indoor di Tony Palafox a Glen Cove, Long Island.
Giocavo con la mia fida Dunlop MaxPly e Patrick - in quel momento, gran parte dei grandi campioni stava abbandonando le racchette di legno - usava uno dei nuovi modelli, la Dunlop Max 200G.
Circa a metà dell’allenamento annientò due mie ottime risposte di rovescio.
Indicai la sua racchetta.
“Fammela provare” gli ordinai con il tono che non ammette repliche dei fratelli maggiori. Me la diede.
Mi ci trovai bene da subito e notai un miglioramento immediato nel mio gioco: servizio più grintoso e più presa nei colpi di rimbalzo.
Portai con me a Dallas tutte e due le Max 200G di Patrick, quando partecipai ai campionati WCT: Battei Lendl in finale continuando il mio momento magico a sue spese e opponendo al suo potere da supereore un poco del mio!
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Quando Gullikson si portò in vantaggio 4-3 al secondo set per una palla chiamata fuori a sproposito, scagliai a terra con violenza la mia Wilson Pro Staff e James mi ammonì.
Più tardi, quando un giudice di linea chiamò fuori un servizio profondo che avevo visto chiaramente sollevare uno sbuffo di gesso, gettai anche la seconda racchetta e lanciai un grido che arrivava dal profondo del Queens, ma che da allora ha viaggiato in tutto il mondo.
“Man, you cannot be serious!”
Cioè: “Ehi, non è possibile che tu dica sul serio”.
Smisi di giocare, andai dal signor James e gli chiesi se avesse visto la nuvoletta di gesso.
Quando fummo 1-1 nel terzo set, Gullikson battè un servizio troppo lungo e la palla non venne chiamata fuori.
Urlai un’altra frase tipica del Queens con cui informavo i giudici che secondo me erano la feccia dell’umanità.
Il signor Edward James nel Queens evidentemente non c’era mai stato.
In seguito si seppe che nel taccuino aveva scritto “piss of the world” (piscio del mondo), non “pits of the world” (feccia del mondo).
Dopo il match mi comminarono una multa di 750 dollari per turpiloquio e un’altra di pari importo per il commento poco sportivo contro il giudice di sedia: mi minacciarono con un’altra multa di diecimila dollari e una possibile squalifica dal torneo se mi fossi permesso di comportarmi ancora in un modo simile.
Tra l’ottobre del 1981 Lendl vinse 42 match di fila falciando chiunque trovasse sul suo cammino, me incluso.
Correva, andava in bici, faceva ginnastica, e soprattutto si allenava, si allenava, si allenava. Io facevo quello che avevo sempre fatto: giocavo a tennis, punto e basta.
Immagino di non sorprendere nessuno se dico che essere il numero uno al mondo richiede un ego di proporzioni colossali.
Dopo la vittoria agli U.S. Open del 1981 fui invitato alla casa bianca dal presidente Regan, e non volevo andarci!
Me lo comunicarono il giorno prima, e l’appuntamento era stato fissato di mattina presto: mi sembrò troppo scomodo.
All’inizio del tour, Gary mi chiede cosa desideravo prima, durante e dopo ogni match. Volli della segatura.
Avevo l’abitudine di tenerne sempre un pò nella tasca dei pantaloncini perchè assorbiva il sudore delle mani.
Sempre in quel periodo andai in Giappone per esibirmi a Osaka e a Tokyo.
Sul treno ad alta velocità che mi portava a Tokyo cominciai a bere del Suntory insieme ad altri giocatori.
Mi trovavo sul treno più veloce del mondo, il Suntuory è un whisky fortissimo e avevo ventiquattro anni.
Quando arrivammo in stazione mi girava la testa.
Mi voltai verso la compostissima signora giapponese che mi stava accanto e le vomitai addosso.
Secondo me, uno dei grandi problemi del tennis contemporaneo sta nel fatto che le star di oggi si rifiutano di riconoscere l’importanza della storia di questo sport.
Una mattina di maggio mi stavo allenando con il mio fratellino diciassettenne Patrick (che, in un mio momento di distrazione, era diventato il numero tre degli stati Uniti nella categoria juniores) al club indoor di Tony Palafox a Glen Cove, Long Island.
Giocavo con la mia fida Dunlop MaxPly e Patrick - in quel momento, gran parte dei grandi campioni stava abbandonando le racchette di legno - usava uno dei nuovi modelli, la Dunlop Max 200G.
Circa a metà dell’allenamento annientò due mie ottime risposte di rovescio.
Indicai la sua racchetta.
“Fammela provare” gli ordinai con il tono che non ammette repliche dei fratelli maggiori. Me la diede.
Mi ci trovai bene da subito e notai un miglioramento immediato nel mio gioco: servizio più grintoso e più presa nei colpi di rimbalzo.
Portai con me a Dallas tutte e due le Max 200G di Patrick, quando partecipai ai campionati WCT: Battei Lendl in finale continuando il mio momento magico a sue spese e opponendo al suo potere da supereore un poco del mio!
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